sábado, 20 de octubre de 2007

Chi ricorda Eranos?


A petición de un lector de nuestro blog, dejo aquí algo sobre lo que Eranos significó en aquellos tiempos de estridencia y mezquindad en Europa, al borde de la segunda Guerra Mundial, había lugares mágicos, donde la prudencia de los días invitaba a la reflexión, la comunicación abierta y la búsqueda de un nuevo horizonte. El artículo es el original en en italiano.

Chi ricorda Eranos, il suo senso, il suo segreto, lo spirito che ha animato per anni, dal 1939, quegli incontri nella villetta di Olga Froebe ad Ascona, sulla riva del lago Maggiore? Carl Gustav Jung, Karl Kerényi, Martin Buber, Herich Neumann, Henri-Charles Puech, Henry Corbin, Mircea Eliade, Walter Otto, Giuseppe Tucci, Louis Massignon, Gilbert Durand, furono solo alcuni tra gli ospiti più fedeli che fecero di quel luogo la fucina della cultura europea del `900.

Approdare ad Ascona per i seminari di "Eranos", accogliendo l'invito di Hélène Erba Tissot, della scuola di psicologia analitica junghiana italiana, è stata per il nostro gruppo di psicoanalisti junghiani un'esperienza fondante che ci ha iniziato ad un nuovo cammino: un pellegrinaggio e un'avventura spirituale che ha segnato un punto di svolta. Grazie ad Hélène Tissot abbiamo conosciuto Marie Amélie de Robilant, Gilbert Durand, Jean Servier, Jean Brun, James Hillman.
Masoprattutto siamo entrati in contatto con lo spirito di Eranos, il suo senso e il suo segreto: l'idea di una comunità vera di oratori e di ascoltatori che si riunivano per consumare un cibo sacro (il nome Eranos viene dal greco eranos, il pasto frugale in cui ognuno porta con sé il proprio cibo da consumare ritualmente nella comunità). Uno stesso proposito animava ciascuno dei conferenzieri appartenenti a diverse discipline: «esporre ciò che gli pareva essenziale per l'uomo
alla ricerca della conoscenza di sé stesso, cioè alla ricerca della piena valorizzazione di tutte le esperienze umane che hanno un significato permanente ed eterno.» (H. Corbin).

C'era un clima di libertà spirituale assoluta. Senza alcuna preoccupazione di essere al passo con il suo tempo, Eranos si proponeva ben altro fine: quello di essere se stessa, esplicitando e ompiendo il proprio senso, di essere una presenza attiva, che mette al presente ciò che la concerne «e quindi perciò è il suo tempo, senza cadere nel suo tempo». Non c'era alcuna ricerca, da parte degli studiosi, del nuovo o dell'originale connotato individualisticamente,
ma soltanto il bisogno di spezzare i confini particolari delle proprie discipline, allargare coraggiosamente il proprio orizzonte.

Gli incontri più fecondi erano certamente tra psicologi del profondo, orientalisti, antropologi, studiosi delle religioni, i quali entravano in un dialogo continuo con i rappresentanti delle scienze
fisiche. Eranos aveva la forza trasformante di un rito. Quell'atmosfera culturale di raccoglimento e di vera creatività era favorita dal genius loci che proteggeva quel luogo, una villetta sulle sponde del Lago Maggiore, immersa nel verde, con alle spalle i monti.

Tuttavia un'epoca stava finendo. Molti di coloro che dal 1939 erano stati gli assidui protagonisti di quel dialogo e ne erano stati il nucleo inspiratore non c'erano più. Ma i semi gettati avevano solo bisogno di tempo per venire alla luce.

Gli incontri di Ascona hanno fatto nascere forti legami di amicizia. Dobbiamo soprattutto a Marie Amélie de Robilant, allieva di Corbin, studiosa di religioni orientali, l'incoraggiamento a continuare ad incontrarci per studiare in un cenacolo con pochi amici, in Svizzera, nella sua casa di Bougy St. Martin, sul lago di Ginevra.

Nel 1981 in Italia il nostro sodalizio ha dato origine all'associazione "Mythos" Istituto di Psicologia analitica e Psicoantropologia simbolica, con sedi a Roma, a Bracciano sulle rive del lago omonimo, e a Formia sulle rive del mar Tirreno.

Il nostro primo scopo era far sì che il messaggio di Eranos continuasse ad essere vivo: che si continuassero a promuovere e incoraggiare gli incontri e il dialogo tra i rappresentanti delle
varie discipline che si rivolgono allo spirito e alla mente umana.

Che proprio degli psicoanalisti junghiani si facciano promotori di questi incontri e confronti tra le varie discipline può essere spiegato dal fatto che la psicologia analitica e la psicoantropologia
simbolica rappresentano ai nostri giorni un tentativo propriamente transdisciplnare di un processo di sintesi che, riprendendo il messaggio delle più antiche tradizioni sapienziali, si muove nella direzione (nell'utopia) della ricomposizione dell'originaria unità del sapere.

Come ci insegna Platone, nei miti si celano i fenomeni originari della vita spirituale e le più profonde conoscenze tradizionali, per questo abbiamo dato alla nostra associazione il nome "Mythos" nel suo significato originario di "parola fondante" che è ad un tempo "essere" e "progetto".

Il nostro approccio conoscitivo è transdisciplinare. Il postulato della transdisciplinarità è che esista, oltre i confini delle singole discipline, uno spazio riempito da un flusso di informazioni che
attraversa tutte le discipline, si nutre di esse e le supera. Si tratta di un luogo senza luogo, uno spazio di apertura, di libertà, di comprensione, di tolleranza, non solo per esigenza morale, ma per necessità epistemologica in quanto la transdisciplinarità si fonda sull'idea dell'irriducibilità del non conosciuto.

La transdisciplinarità, come ebbe a dire Basarab Nicolescu al Congresso: "Scienze e Tradizione: prospettive transdisciplinari" (UNESCO, 2-6 Dicembre 1991), appartiene alla no man's land che si situa tra le differenti discipline senza essere definita dai metodi e dalle metodologie di queste differenti discipline.

Va dunque oltre la metodologia interdisciplinare che, pur evidenziando le relazioni e le reciprocità di ricerche portate avanti da discipline particolari, si muove restando comunque sempre all'interno delle singole sfere di conoscenza.

Essa cerca di ricomporre la scissione multisecolare all'interno del sapere, mira alla riconciliazione tra soggetto ed oggetto, tra l'uomo esteriore e l'uomo interiore, rappresenta un tentativo di
ricomposizione dei differenti frammenti della conoscenza.

La transdisciplinarità è dunque la conseguenza necessaria dell'interezza dell'essere umano, ed è questo in realtà il vero fine della conoscenza.

L'Istituto "Mythos" svolge le sue ricerche nell'ambito della psicologia analitica e della antropologia simbolica sulla linea del nuovo spirito antropologico ed epistemologico di cui danno
testimonianza (tra gli altri) il pensiero e l'opera di C. G. Jung, H. Corbin, A. Coomaraswamy, M. Eliade, G. Bachelard, G. Durand, J. Ries.

Il particolare interesse della psicologia analitica di Carl Gustav Jung per la ricerca sul simbolo ci ha spinti a guardare a Gilbert Durand fondatore in Francia nel 1968 di un "Centro Interuniversitario di Ricerca sull'Immaginario e il Simbolo" e a proseguire le nostre
ricerche in collaborazione con il C.R.I. (Centres de Recherches sur l'Imaginaire) che coordina presso l'Università di Perpignan (Francia) tutti i Centri di Ricerche dell'Immaginario del mondo.

L'esigenza di uno spazio di incontro, al di là di ogni accademismo e dogmatismo, fuori da ogni definizione e da vincoli burocratici, ma in cui emergano affinità, relazioni, tendenze, in un concorso che prenda significato, ha portato all'idea di creare la rivista di psicoantropologia simbolica e tradizioni religiose «átopon».

Atopon è "luogo di ciò che è senza luogo", eppure è sempre presente ad orientarci e a guidarci:

"è il simbolo? Molti sono i suoi nomi".

Maria Pia Rosati

jueves, 18 de octubre de 2007

La torre de Babel


Dur Kurigalzu

La evolución también ha alcanzado la comunicación humana. El acto de comunicarse, cada día resulta más fácil gracias a los avances técnicos, sin embargo, el proceso de comunicarse cada día resulta más complejo, por un problema básico del lenguaje, que solo permite transferir conocimientos, pero tiene enormes dificultades para transmitir las emociones.

Hoy, está suficientemente aclarado que la biología no define lo esencial de nuestra especie; desde que Darwin erradicó la mano de Dios de la evolución humana, nos hemos hecho cada día más dueños de nuestra existencia, aunque no seamos demasiado responsables con muchas de las pautas por las que discurren nuestras vidas.

Somos seres culturales, que disponemos de la capacidad de comunicarnos, lo que posiblemente ha contribuido más que ninguna otra cualidad humana a la transformación del mundo que habitamos. El mundo que vemos es la construcción última de otros muchos en ruinas.

Foucault, entre otros autores reconocidos, explicó la futilidad de las convenciones lingüísticas para comprender o explicar las cosas de la vida y el mundo. Mac Luhan nos dijo que el medio era el mensaje en esta aldea global. Chomsky descubrió los conceptos de la gramática generativa y se ocupa desde hace años en desentrañar la usurpación del lenguaje por la propaganda.

El lenguaje es relativo a la cultura, eso se conoce bien desde la antropología. ¿Cómo explicarle a un bantú que habita en una aldea africana los problemas de tráfico que hay en Madrid?. Tendremos las mismas dificultades que él se encontrará si se propone explicarnos por qué sus rituales espantan a los demonios.

El lenguaje es pura convención, aunque estamos convencidos de su utilidad. Pero es insuficiente como mecanismo de comunicación, esto no impide que mantenga su hegemonía a la hora de transferir conceptos y contenidos, sensibles o racionales.

Tal vez sea necesario evolucionar en la comunicación, incorporando nuevos canales de transmisión y otras formas de almacenar los items.

Los jóvenes, a los que siempre debemos estar atentos, se están cargando el lenguaje en sus conversaciones de MSN, en los mensajes telefónicos, en los chats; parece que la estructura gramatical sólo permanece en el habla y no de forma precisa, aunque tambien se establezcan nuevas jergas, que los adultos entendemos con dificultad.

Esta forma de actuar es un MENSAJE en sí mismo (un metamensaje, tal vez), quiere decirnos que lo importante es comunicarse, aunque sea cargándose la gramática, la ortografía o el idioma al completo. En cierta manera es una deconstrucción, y al mismo tiempo una señal de identidad. ¿Se habla como se piensa o se piensa como se habla, o ninguna de las anteriores?. Posiblemente todo se relativice a las circunstancias.

Pero los cambios del lenguaje suponen una vuelta de tuerca a la espita que promoverá la explosión controlada de los valores sobre los que se ha asentado la evolución cultural de nuestra especie, tal y como la conocemos.

Pero este DES-HACER, tiene algo de REGRESION al mismo tiempo, de expresión animal del grito gutural primigenio ante la asfixia tecno-económica y organizativa en que se ha convertido la existencia de los ciudadanos del mundo occidental.

En Francia se han producido no hace mucho gestos de destrucción gestionados por jóvenes inmigrantes que reclaman espacios nuevos y se dedican a incendiar automóviles, uno de los símbolos fundamentales de la civilización occidental. (siendo el automóvil a nuestra civilización, como las torres gemelas a los Estados Unidos, que también fueron incendiadas, como los trenes de Atocha).

El fuego catártico y purificador, que tanto le agradaba estudiar a Bachelard, es una vez más el instrumento elegido para destruir lo que existe, para cambiar el espacio en el tiempo. Cabe preguntarse si este movimiento pulsional alcanzará el rango de revolución.

Sin embargo, tal vez estemos mucho más sometidos de lo que creemos a una dictadura de las palabras, del lenguaje, que ha desplazado en su expansión a otras formas de comunicación más primitivas, pero no por ello innecesarias.

Los jóvenes parecen saber, tal vez nosotros se lo hayamos enseñado, que la comunicación es más importante por los contenidos que transfiere, que por las formas establecidas y asumidas de transmitirlos.

Se vive un nuevo romanticismo, y como todos los romanticismos son antirepresivos y regresivos, quizás un poco depresivos y melancólicos, pero marcan y definen el punto de nuevos avances que vendrán posteriormente. Son pasos atrás para tomar nuevo impulso, recreos que se toma la especie para contemplarse a sí misma.

Los grandes alpinistas saben que ESCALAR no es sólo ascender, el ascenso a la cima sólo es el resultado final, se asciende como adición de otras muchas acciones, entre las que saber descender o quedarse quieto también es importante.

Los buenos montañeros, como los grandes viajeros, conocen que el plácer no está en alcanzar el destino previsto, sino en disfrutar del recorrido que nos conduce hasta él. La vida es un viaje maravilloso, y la comunicación, un pasaje hacia el destierro de la soledad y la ignorancia.

La evolución de nuestra especie, el progreso de la cultura, el desarrollo de un mundo nuevo, pasa indudablemente por la destrucción de la hegemonía del lenguaje como forma de comunicación (que no por la destrucción del lenguaje, no se malentienda). El camino hacia el mañana pasa por la construcción de la torre de Babel (o de Google, como ustedes prefieran).

El futuro no necesita superhombres ensalzados por Spengler o idealizados por Nietzsche, necesita hombres y mujeres superándose cada día, saliendo de sus complejos, desprendiéndose del lastre de sus miedos y vergüenzas.

El mañana comienza ahora, enterrando los silencios del lenguaje, que son todas aquellas cosas que no pueden expresarse con palabras, y que guían nuestras vidas, posiblemente mucho más que la gramática. La comunicación ha iniciado un proceso de regreso al estructuralismo, al fin y al cabo, comunicarse es una función de relacionarse.

En otra ocasión lo dije, a pesar de los esfuerzos de los poetas, los sentimientos que se expresan con palabras están muertos. Las palabras, son los sarcófagos de las emociones.

Erasmo de Salinas

miércoles, 17 de octubre de 2007

Stefan Zweig despide a Freud


Palabras pronunciadas por el escritor austriaco, quizás el que mejor ha descrito las emociones, ante el féretro de Sigmund Freud en el crematorio de Londres, era el día 26 de septiembre de 1939

Permítanme, en presencia de este glorioso fére­tro, unas palabras de estremecido reconocimiento en nombre de sus amigos vieneses, austríacos y mundiales, en aquella lengua que Sigmund Freud enriqueció y ennobleció con su obra en forma tan grandiosa. Tengamos ante todo conciencia de que los que aquí estamos reunidos por un duelo común, vivimos un momento histórico que ciertamente no nos concederá el destino por segunda vez en nues­tra vida. Recordemos que para otros mortales, para casi todos los mortales, en el breve minuto en que el cuerpo se hiela, su existencia, su presencia entre no­sotros, ha terminado para siempre. En cambio, para éste ante cuyo féretro estamos, para este uno y único de nuestra desconsolada época, la muerte es apenas un fenómeno fugaz y casi carente de esencia. Aquí, el desaparecer de entre nosotros no es un fin, no es una dura conclusión, sino simplemente una transi­ción suave de lo mortal a la inmortalidad. Por lo transitorio del cuerpo que hoy perdemos dolorosa­mente se salva lo imperecedero de su obra, de su sustancia: los que aquí en este lugar respiramos y vivimos y hablamos y escuchamos aún, todos, todos juntos no estamos vivos en sentido espiritual ni una milésima parte siquiera de como lo está este gran muerto aquí, en su estrecho féretro terrenal.

No cuenten con que celebraré los hechos de la vida de Sigmund Freud. Ustedes conocen su obra y ¿quién no la conoce? ¿Quién de nuestra generación no la formuló íntimamente y la transformó? Ella vi­ve, magnífico descubrimiento del alma humana, como leyenda inmortal en todos los idiomas, y esto en el más estricto sentido de la palabra, porque ¿existe acaso una lengua que pudiera no echar de menos y carecer otra vez de los conceptos y los términos que él arrancó al crepúsculo de lo sub­consciente? La moral, la educación, la filosofía, las letras, la psicología, todas y todas las formas de la creación espiritual y artística y del entendimiento anímico, desde dos o tres generaciones atrás, se en­riquecieron por él como por ningún otro de nuestra época; por él se revalorizaron... Aun aquellos que no saben de su obra o se niegan a reconocer sus hallaz­gos, aun aquellos que nunca oyeron su nombre, es­tán inconscientemente en deuda con él y sometidos a su voluntad espiritual. Cada uno de nosotros, los hombres del siglo XX, sería distinto, sería otro, sin él en su pensamiento y su comprensión; cada uno de nosotros pensaría, juzgaría, sentiría en forma más estrecha, menos libre, más injusta si él no nos hubiera precedido en el pensar, sin aquel poderoso impulso hacia adentro que él nos dio. Y cada vez que tratemos de penetrar en el laberinto del corazón humano, su luz espiritual seguirá estando constan­temente en nuestro camino... Todo lo que Sigmund Freud concibió y anticipó como inventor y guía, es­tará con nosotros también en el futuro; una sola cosa, un solo ser nos abandonó, el hombre mismo, el amigo precioso e irreemplazable. Yo creo que todos nosotros sin distinción, por diferentes que seamos, nada hemos deseado en nuestra juventud tan viva-mente como ver vivir en carne y sangre ante noso­tros lo que Schopenhaüer llama la forma suprema de la existencia: una existencia moral, una vida he­roica. Todos hemos soñado cuando niños con en­contrar una vez a ese héroe espiritual, por el cual pudiéramos formarnos y crecer en sustancia, un hombre indiferente a las seducciones de la gloria y de la vanidad, un hombre de alma rebosante y res­ponsable, entregado únicamente a su labor, una la­bor que a su vez no se sirve a sí misma sino a toda la humanidad. Este ilustre muerto realizó inolvida­blemente con su vida aquel sueño entusiasta de nuestra infancia, aquel postulado cada vez más exi­gente de nuestra madurez, y con ello nos donó una dicha espiritual incomparable. Aquí, finalmente, en una época vanidosa y olvidadiza, fue el imperturba­ble, el buscador puro de la verdad, para quien en este mundo nada es más importante que lo absoluto, lo definitivo. Aquí estaba ante nuestros ojos, en fin, ante nuestro respetuoso corazón, el más noble, el más perfecto tipo de investigador en su eterno desa­cuerdo: por una parte, prudente, examinando con cuidado, reflexionando siete veces siete y dudando de sí mismo, hasta no estar seguro de un conoci­miento; pero luego, apenas conquistada una con­vicción, defendiéndola contra la oposición de todo un mundo. Por él, nosotros y nuestra época hemos aprendido una vez más en forma ejemplar que no hay sobre la tierra valentía más admirable que la li­bre e independiente de un hombre del espíritu; inolvidable será para nosotros ésta su valentía de encontrar conocimientos que los demás no des­cubrían porque no se atrevían a encontrarlos o, en ocasiones, ni a expresarlos y confesarlos. Más él osó y osó, constantemente, solo contra todos; osó anti­ciparse en lo nunca hollado hasta el último día de su vida. ¡Qué ejemplo nos legó con éste su valor del alma en la eterna lucha de la humanidad por el co­nocimiento!

Pero cuantos le conocíamos, sabemos también qué emotiva modestia personal acompañaba de cer­ca este valor para lo absoluto, y cómo este ser admi­rablemente fuerte de alma era al mismo tiempo el más comprensivo para todas las debilidades espiri­tuales. Este doble tono profundo -la severidad del alma, la generosidad del corazón- originó al final de su vida la más perfecta armonía que pueda con­quistarse en el mundo del espíritu: una pura, clara y otoñal sabiduría. Quien la experimentó en estos úl­timos años, se consoló en una hora de mutua confi­dencia de la contradicción y la locura de nuestro mundo, y, a menudo, durante esas horas, deseó que ellas fueran concedidas también a hombres jóvenes, en devenir, para que ellos, en un momento en que no podremos ya ser testimonio de la grandeza espi­ritual de este hombre, pudiesen decir todavía con orgullo: "He visto a un verdadero sabio, he conoci­do a Sigmund Freud".

Algo puede reconfortarnos en esta hora: Freud había concluido su obra y se había concluido en plenitud él mismo íntimamente. Dueño hasta del enemigo primitivo de la vida, del dolor físico, por la firmeza del espíritu, por la resistencia del alma, due­ño de sí no menos contra el dolor propio, como lo fue toda la vida en la lucha contra lo que le era aje­no, ejemplar por eso como médico, como filósofo, como conocedor de sí mismo hasta el último ins­tante amargo.

Gracias por este ejemplo, amado y venerado amigo, y gracias por tu gran vida creadora, gracias por tus acciones y tus obras, gracias por lo que fuiste y por lo que vertiste de ti en nuestras almas; gracias por los mundos que abriste para nosotros y que ahora recorremos solos, sin guía, siempre fieles a ti, siempre recordándote con respeto; tú, el amigo más precioso, tú, el maestro más amado, Sigmund Freud.

Stefan Zweig

martes, 16 de octubre de 2007

Ánima Mundi de William Butler Yeats

William Butler Yeats, poeta y dramaturgo, premio Nobel de literatura en 1923, y considerado el mayor poeta de Irlanda y uno de los grandes de la poesía universal, fue también un estudioso del esoterismo, la mística, y del simbolismo de diversas disciplinas tradicionales como la alquimia y la cábala. Yeats se interesó profundamente por las realidades invisibles, sus símbolos y sus leyes, y bebió de fuentes tan sublimes como las visiones de William Blake y Swedemborg, y tan degradadas como la delirante pseudo doctrina de la señora Blavatsky a quien conoció personalmente.

En el texto que presentamos a continuación, que es sólo un capítulo de su escrito titulado Anima Mundi, el poeta da cuenta con indudable talento y sensibilidad de artista, de sus incursiones por ese mundo que trasciende lo individual y lo propiamente humano; y a lo que llama en un primer momento 'Gran Memoria' pero luego hacia el final del relato identifica como el alma misma del mundo, más allá del tiempo, y de la cual cada uno de nosotros no sería más que una capa de espuma en la superficie de un vasto y luminoso océano.

Existe una carta de Goethe, aunque no puedo recordar donde, en la que explica la evocación, aunque él se refería sólo a la literatura. Describía a un amigo que había denunciado la esterilidad literaria como algo demasiado inteligente. Antes de criticar, uno debe permitir que las imágenes se formen con todas sus asociaciones. “Si uno se muestra crítico demasiado pronto”, escribió, “éstas no se formarán en absoluto”. Si uno suspende la facultad crítica, he descubierto, bien como resultado de un entrenamiento, o bien, si uno posee el don, entrando en un ligero trance, las imágenes se suceden rápidamente delante de uno. Si somos también capaces de suspender el deseo, y dejar que éstas se formen según su propia voluntad, la absorción es más completa y ellas se muestran más claras en sus colores, más precisas en su articulación, y juntos comenzaos a movernos en medio de lo que parece un intensa luz. Mas las imágenes pasan ante nosotros unidas por ciertas asociaciones, de hecho al principio las convocamos mediante su asociación con formas y sonidos tradicionales. Habremos descubierto si podemos suspender todo excepto la voluntad y el intelecto, cómo extraer del “subconsciente” cualquier cosa de la que ya poseamos un fragmento. Aquellos que siguen la vieja regla mantienen su cuerpos en calma y sus entes despiertas y despejadas, temiendo especialmente cualquier confusión entre las imágenes de la mente y los objetos del sentido; buscan el convertirse, por decirlo así, en espejos pulidos.

Yo no tenía ningún don natural para esta especie de sosiego despejado, como muy pronto descubrí, pues mi mente es de una inquietud fuera de lo normal; y rara vez me sentía deleitado con aquella súbita y luminosa definición de forma que le hace a uno comprender, casi a su pesar, que uno no está simplemente imaginando.

Por ello inventé un nuevo proceso. Había comprobado que después de una evocación, mi sueño parecía a ratos lleno de luz y forma, de todo lo que no había conseguido hallar despierto; y así elaboré un simbolismo de objetos naturales, de tal forma que pudiera facilitarme sueños cuando durmiera, o más bien visiones, pues no tenían la confusión de aquellos, depositando sobre i almohada o junto a la cama ciertas flores y hojas. Aún hoy, veinte años después, las exaltaciones y los mensajes que me llegaban de algunos fragmentos de espino y otras plantas parecen constituir , de todos lo s momentos de mi vida, los más felices y sabios.

Después de un tiempo, debido quizá a que la novedad se disipaba, el símbolo perdió su poder, o porque mi trabajo en el Teatro Irlandés se volvió demasiado excitante, mi sueño perdió su sensibilidad. Tenía yo algunos condiscípulos, y unas veces yo y otras veces ellos hacíamos algún descubrimiento. Ante la imaginación, ya estuviésemos dormidos o despiertos, pasaban imágenes que uno acababa descubriendo luego en algún libro que nunca había leído, y después de buscar en vano una explicación den la teoría corriente de la memoria personal olvidada, llegué a creer en una Gran Memoria que se transmitía de generación en generación.

Pero esto no era suficiente, pues estas imágenes mostraban intencionalidad y selección. Presentaban una relación con l o que uno ya sabía, y no obstante era una extensión al conocimiento de uno. Si no había allí ninguna mente, ¿porqué de repente había de encontrar yo la sal y el antimonio, o la licuefacción del oro, tal y como eran entendidas por los alquimistas, o algún detalle del simbolismo cabalístico, verificado al final por un docto erudito a través de sus manuscritos nunca publicados; y quién puede haber juntado de forma tan ingeniosa, trabajando mediante alguna ley de asociación y no obstante con una clara intención y aplicación personal, ciertas imágenes mitológicas?

Estas se habían mostrado a numerosas mentes, un fragmento cada vez, y expuesto su significado sólo un vez que el rompecabezas había sido completado. Ante mí aparecía una y otra vez el pensamiento de que este estudio había creado un contacto o mezcla con aquellas mentes que habían seguido un estudio igual en alguna otra época, y de que estas mentes todavía veían y pensaban y elegían. Nuestro pensamiento diario no era sino la capa de espuma que hay en el borde poco profundo de un vasto y luminoso océano; el Anima Mundi de Henry More, el “mar inmortal que nos trajo aquí” de Wordsworth, junto a cuya orilla juegan los niños, y en ese mismo mar había algunos que nadaban o navegaban, exploradores que quizá conocían todas sus costas.

William Butler Yeats
Mayo de 1917